L’editoriale di Nicolò Govoni
La promessa
Mi trovo in uno dei luoghi più inaccessibili della Terra, per mantenere una promessa fatta ormai quattro anni fa. Non ero mai stato in un luogo così. Ho trascorso gli ultimi undici anni tra zone di guerra, miniere popolate da schiavi e le baraccopoli più grandi d’Asia, Africa e Sudamerica. Ho sempre trovato le parole per rappresentarle. Ora non ci riesco. Ma ci provo. È mio dovere farlo.
Kakuma è la bocca dell’inferno. Tradotto come “nessun luogo” in swahili, si trova al confine con il Sud Sudan e conta oltre 290 mila abitanti imprigionati in una regione semi-desertica. È uno dei campi profughi più grandi del mondo.
Quattro anni fa, nell’aprile la nostra Scuola rivoluzionaria a Nairobi, in Kenya, ci eravamo ripromessi di spingerci oltre ogni confine mai attraversato per offrire un’opportunità anche a quei bambini ai quali nessun altro era mai arrivato prima. Abbiamo atteso anni prima di sentirci veramente pronti a questo enorme passo. Ma il momento è finalmente arrivato. Anzi, il tempo è già quasi scaduto.
Il dramma dei profughi del Sud Sudan
La crisi migratoria del Sud Sudan sta diventando la più grave al mondo, superando quella ucraina. La differenza è che i profughi sud sudanesi non li vuole nessuno. E non li ha MAI voluti nessuno. Perché il campo di Kakuma è nato nel 1991, 33 anni fa, nella cornice della Seconda Guerra Civile del Sudan. È qui che hanno trovato rifugio i “Bambini Perduti del Sudan”, quella carovana di 20.000 minori soli che, per sfuggire a una violenza efferatissima, hanno attraversato la savana, senza cibo né acqua, alla mercé dei miliziani e degli animali selvatici, per cercare riparo in Etiopia prima, e in Kenya poi. Dopo tanto peregrinare i superstiti sono approdati a Kakuma, e in molti non se ne sono più andati.
Sono rimasti imprigionati in un campo profughi gigantesco, popolato al 53% da bambini, un luogo in cui in media le persone restano bloccate per 18 lunghi anni, prive d’istruzione, sanità, cibo, acqua, riparo, sicurezza o anche solo la possibilità di lavorare legalmente. Più di 290.000 persone intrappolate in quello che il governo si ostina a considerare ancora un “insediamento informale”, impedendo quindi la costruzione di qualsivoglia struttura permanente e obbligando la gente a vivere in baracche di lamiera, tende di tela cerata e capanne di fango. Una città a tutti gli effetti, ormai, ma invisibile, ignorata e negata.
“Odio la mia vita,” affermano alcuni residenti, definendo Kakuma una “prigione a cielo aperto” e lamentando una profonda insoddisfazione verso il lavoro delle ONG. Eppure il 96% di loro sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari. In media, una persona a Kakuma sopravvive con 6,4 scellini al giorno – ovvero 0,046 euro.
L’emergenza educativa
Un bambino su tre non frequenta le elementari. Il 95% degli adolescenti non frequenta le superiori e, anche ci riesce, si trova spesso in aule in cui il rapporto insegnante-studenti arriva a 1:180. Nessuna abitazione, sia essa una baracca o una capanna, ha accesso all’acqua corrente o al sistema elettrico pubblico. Nessuno ha il bagno. Nei giorni migliori, il residente medio fa un pasto. E l’unico, l’unico, l’unico modo di evadere da questo inferno per gli innocenti è trovare lavoro – e un’azienda disposta a emettere un permesso di lavoro – oppure ricevere una borsa di studio.
Ed è qui che entriamo in gioco noi. È ufficiale! Siamo i primi al mondo, i primi in 33 anni a offrire ai bambini di Kakuma la possibilità di ottenere non solo il prestigioso Baccalaureato Internazionale presso una Scuola di altissimo livello, ma anche la libertà grazie all’istruzione. E io sono qui per mantenere la promessa.